VENDITA INTERNAZIONALE DI MERCI E DIRITTO MATERIALE UNIFORME: TRE DECISIONI DEFINITE “STRAORDINARIE”[1]
SOMMARIO: 1) Introduzione; 2) Prevalenza del diritto materiale uniforme della Convenzione delle Nazioni Unite di Vienna del 1980 sulle norme di diritto internazionale privato; 3) Presupposti di applicazione della Convenzione di Vienna del 1980; 4) Alcuni aspetti della disciplina uniforme della vendita internazionale di merci: vizi e difetti della merce, termini di denunzia, termini di adempimento, “Nachfrist” e buona fede; 5) Lacune della Convenzione di Vienna e modo di colmarle: lacune interne e lacune esterne; 6) Impossibilità del diritto uniforme ad eliminare il fenomeno del “forum shopping”.
1. Introduzione:
- Una compagnia di assicurazione tedesca (surrogatasi nei diritti di una società connazionale che aveva acquistato da una ditta italiana una fornitura di gomma vulcanizzata asseritamente viziata) contesta detti vizi al fornitore italiano e lo conviene in giudizio chiedendo il risarcimento dei danni; quest’ultimo eccepisce la tardività della denuncia dei difetti nonché la mancata prova degli stessi;
- una società acquirente italiana propone opposizione al decreto ingiuntivo notificatole da una ditta francese per il pagamento della fornitura di una partita di porcellane destinate all’attività di ristorazione dell’attrice e da questa non pagata per l’asserita esistenza di vizi;
- una ditta italiana propone opposizione al decreto ingiuntivo notificatole dal fornitore austriaco che reclama il pagamento del corrispettivo per la fornitura di prodotti agricoli, tra cui patate “invernali”, non pagate dall’acquirente che eccepisce la mancata messa in mora nonché la compensazione con un suo credito:
si tratta di fattispecie delle quali si sono occupati rispettivamente il Tribunale di Vigevano, 12 luglio 2000[2], il Tribunale di Rimini, 26 novembre 2002[3] ed il Tribunale di Padova – sez. distaccata di Este, 25 febbraio 2004[4] ed aventi tutte in comune il fatto che le parti di un contratto di vendita di merci avevano la loro sede d’affari in Stati differenti.
In tali casi – invero sempre più frequenti in epoca di internazionalizzazione dei rapporti commerciali – è emerso che le parti contraenti raramente si pongono il problema dell’individuazione del diritto sostanziale applicabile alla fattispecie, oppure tendono a risolverlo ricorrendo ai vari criteri di collegamento offerti dalle norme di diritto internazionale privato[5].
Il più delle volte tale soluzione si rivela errata.
2. Prevalenza del diritto materiale uniforme della Convenzione delle Nazioni Unite di Vienna del 1980 sulle norme di diritto internazionale privato.
Sempre più spesso, infatti, la giurisprudenza applica alla fattispecie, in quanto ne ricorrano i presupposti, le norme di diritto uniforme previste dalla Convenzione delle Nazioni Unite di Vienna del 1980 sui contratti di vendita internazionale di beni mobili corporali, ratificata con legge 11 dicembre 1985 n. 765 ed entrata in vigore in Italia il 1° gennaio 1988[6].
Si è ritenuto, infatti, che all’approccio internazionalprivatistico debba preferirsi, ove possibile, l’applicazione di norme di diritto sostanziale, poiché: «il ricorso alle norme di diritto materiale uniforme deve sempre prevalere su quello avente ad oggetto le norme di diritto internazionale privato (indipendentemente dalla loro fonte) essendo le prime per definitionem speciali rispetto alle seconde giacché risolvono il problema sostanziale «direttamente», ossia evitando il doppio passaggio, consistente nell’individuazione del diritto applicabile prima e quindi nell’applicazione del diritto stesso, che sempre si rende necessario quando si fa ricorso alla giustizia di diritto internazionale privato[7]».
La preferenza della Convenzione delle Nazioni Unite (che è convenzione di diritto materiale uniforme, e non di diritto internazionale privato, come talvolta si è erroneamente affermato) si fonda inoltre sul carattere di specialità relativamente al suo ambito di applicazione, dato che, rispetto alla Convenzione dell’Aja (che riguarda, come è noto, ogni tipo di contratto di vendita «internazionale»), essa si applica solamente ai contratti la cui internazionalità dipende dalla diversa ubicazione statale della sede d’affari delle parti contraenti.
Sicché si può affermare che la Convenzione di Vienna entra a far parte a tutti gli effetti degli ordinamenti degli Stati aderenti, assumendo il compito di disciplinare i contratti di vendita di beni mobili aventi carattere internazionale[8].
Va subito evidenziata, ora, una delle particolarità più rilevanti di detta Convenzione, consistente nel fatto che essa «va interpretata tenendo conto del suo carattere internazionale e della necessità di promuovere l’uniformità della sua applicazione e di assicurare il rispetto della buona fede nel commercio internazionale» (art. 7, 1° comma).
Si tratta di una disposizione volta ad assicurare che, nell’interpretazione, si tenga presente che la Convenzione rappresenta il risultato di sforzi volti all’uniformazione del diritto fatti a livello internazionale e che essa non è venuta in essere – al contrario delle leggi statali – sullo sfondo di un ordinamento giuridico nazionale unitario, né in un linguaggio giuridico ben preciso. Da qui, secondo la dottrina, la necessità di favorire una «interpretazione autonoma», un’interpretazione che parta dalla Convenzione stessa, con la conseguenza che un ricorso al diritto nazionale o a determinati concetti o modi di intendere propri di un diritto nazionale da parte di chi è chiamato ad applicare la convenzione stessa non è ammesso[9].
Il postulato del carattere internazionale ed il precetto dell’uniformità dell’interpretazione - necessariamente in stretta correlazione tra loro - vengono intesi dalla dottrina italiana e straniera nel senso che le corti che applicano la Convenzione (CISG) sono tenute ad avere riguardo alla giurisprudenza degli altri Stati, al fine di giungere in tal modo ad un’interpretazione concorde[10].
E’ infatti proprio il ricorso alla giurisprudenza straniera (malgrado la consapevolezza che ad essa vada riconosciuto valore non vincolante bensì solo «persuasivo»[11]) che caratterizza le citate sentenze del Tribunale di Vigevano[12] (dove sono citate ben 40 decisioni straniere), del Tribunale di Rimini (35 decisioni straniere) e di quello di Padova (oltre 40 decisioni straniere)[13], laddove, in precedenza, pochissime erano invece le decisioni che l’esaminavano[14].
3. Presupposti di applicazione della Convenzione di Vienna del 1980.
Venendo ai presupposti per la sua applicazione, la citata giurisprudenza ne individua sia di ordine materiale che internazionale.
a) Sotto il profilo materiale deve trattarsi di contratto di compravendita, il cui concetto è da ricavarsi in modo autonomo, ossia senza basarsi su definizioni proprie di un determinato ordinamento e, quindi, in base al disposto degli artt. 30 e 53 della Convenzione, dai quali si evince che è contratto di compravendita alla luce della Convenzione il negozio in forza del quale il venditore è obbligato a consegnare i beni, trasferirne la proprietà ed eventualmente rilasciare tutti i documenti ad essi relativi, mentre il compratore è obbligato a pagare il prezzo ed a prendere in consegna i beni.
Va considerato tuttavia che l’art. 3 della Convenzione amplia il concetto di vendita, estendendolo sino a contemplare i contratti di fornitura di merce da fabbricare o produrre, a meno che la parte che ordina queste ultime non debba fornire una parte essenziale del materiale necessario a tale fabbricazione o produzione: si tratta cioè, entro certi limiti, di taluni contratti che avendo ad oggetto, oltre al dare, anche un facere, di regola non sono considerati delle vendite[15]. Resterebbero comunque esclusi, ad esempio, i contratti di distribuzione[16].
Inoltre, sempre l’art. 3 esclude l’applicazione della Convenzione ai contratti in cui la parte preponderante dell’obbligo della parte che fornisce le merci consiste in una fornitura di manodopera od altri servizi: si tratta di contratti in cui, oltre al dare, sono previste obbligazioni di facere non meramente strumentali alla produzione.
b) Si richiede altresì che l’oggetto della compravendita sia, al momento della consegna, mobile e tangibile. Non sono quindi beni ai sensi della Convenzione quelli incorporali, come ad esempio le invenzioni industriali, il marchio e la ditta, né, secondo la miglior dottrina, il know how[17].
E’ comunque da rilevare che la Convenzione, all’art. 2, esclude dal suo ambito di applicazione le vendite ai consumatori (la cui legge regolatrice sarà pertanto determinata dalle norme di conflitto), le vendite all’asta, quelle effettuate in seguito a pignoramento o altro atto giudiziario, di titoli di credito o valuta, di navi, battelli, aeronavi o aeromobili nonché di energia elettrica. Si tengano inoltre presenti le due Convenzioni di Ottawa del 28 maggio 1988 relative al diritto sostanziale del factoring e del leasing finanziario, che completano la Convenzione sulla vendita del 1980 e che, insieme alla già citata Convenzione dell’Aja del 1955 (che riguarda però – come già detto – la problematica della legge applicabile), costituiscono le quattro convenzioni in materia di contratti del commercio internazionale[18].
c) Va poi stabilito se il contratto sia da reputarsi, ai sensi della Convenzione, «internazionale». Anche il carattere dell’internazionalità è definito dalla stessa Convenzione: occorre cioè che le parti contraenti abbiano, al momento della conclusione del contratto (pertanto è irrilevante se questa circostanza muta successivamente), la loro sede d’affari, ossia il luogo dal quale viene svolta un’attività commerciale caratterizzata da una certa durata e stabilità nonché da una certa autonomia, in Stati diversi.
Da tale definizione consegue, da un lato, che se il requisito della diversa ubicazione statale dovesse mancare, la disciplina applicabile sarebbe quella da individuarsi a mezzo delle norme di diritto internazionale privato del foro, anche se il contratto dovesse essere eseguito in uno Stato diverso da quello in cui compratore e venditore hanno la propria sede d’affari. Dall’altro lato, dalla medesima definizione di internazionalità consegue che si è in presenza di un contratto «internazionale» ai sensi della Convenzione in esame anche quando la merce non è destinata a passare alcuna frontiera, purché le parti abbiano la loro sede d’affari in Stati diversi[19], ed indipendentemente dal fatto che le parti siano cittadini dello stesso Stato[20].
Si è ritenuto inoltre che, poiché i caratteri di stabilità e autonomia «possono essere riconosciuti anche alle sedi d’affari secondarie (Zweigniederlassungen), anche queste ultime possono rientrare nel concetto di sede d’affari della Convenzione di Vienna, non richiedendo questa il carattere della principalità (BGH 2.6.1982, in Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 1983, 755. In dottrina conformi Herber 1995, 49 e Reinhart 1991, 37). Ciò ha rilevante importanza in caso di parti aventi più di una sede. Ne discende che in caso di una società italiana, pertanto, con sede legale in Italia, ma munita di sede secondaria in Germania, si riterrà «sede d’affari» ai fini della Convenzione di Vienna quella che risulterà collegata più strettamente con il contratto e la sua esecuzione, tenendo conto delle circostanze note alle parti o da loro prese in considerazione, in qualsiasi momento prima o al momento della conclusione (art. 10, lett. a). Occorre però un reale collegamento del contraente con il luogo, e non una mera fittizia registrazione o iscrizione a registri tenuti da uffici di quella località (Jayme 1987, 31). Sussistendo la stessa condizione potrà, quindi, essere ritenuta sede d’affari la sede secondaria in Italia di una società tedesca avente la sede principale in Germania [21]».
d) Altro elemento necessario, oltre all’internazionalità, è che i Paesi nei quali le parti hanno la loro sede d’affari siano Stati contraenti della Convenzione al momento della conclusione del contratto (art. 1, 1° comma, lett. a), oppure che le norme di diritto internazionale privato del foro rinviino al diritto di uno Stato contraente benché una o addirittura entrambe le parti abbiano la propria sede d’affari in Stati non contraenti (art. 1, 1° comma, lett. b)[22].
In tale ultima ipotesi si ha, ad esempio, che nei casi in cui la lex fori sia la legge di uno Stato, come l’Italia, le cui norme di diritto internazionale privato in materia di compravendita internazionale sono quelle previste dalla Convenzione dell’Aja del 1955, la Convenzione in esame si applica di regola ogni qualvolta la legge scelta (espressamente o in modo indubbio) dalle parti o, in mancanza di una valida electio iuris, quella del luogo in cui ha la propria sede d’affari il venditore, sia la legge di uno Stato contraente[23].
e) Ulteriore elemento ancora da tener presente è che, ai sensi dell’art. 1, 2° comma, la diversa locazione statale del place of business dei soggetti contraenti, per essere rilevante ai fini di determinare il carattere internazionale della vendita (e quindi l’applicabilità della Convenzione), deve emergere dal contenuto del contratto, dalle trattative che lo hanno preceduto oppure dalle informazioni che le parti si sono scambiate prima o in occasione della stipulazione del contatto.
In questa maniera, si è detto, la Convenzione ha inteso evitare un’applicazione «a sorpresa» della legge materiale uniforme in tutti i casi (specie, ad esempio, quelli di contratti conclusi verbalmente[24] tra persone che parlano la stessa lingua), in cui le circostanze della conclusione del contratto[25] o il testo negoziale non consentano alle parti di dedurre l’ubicazione delle rispettive sedi di affari in differenti Stati[26].
Le corti si sono di conseguenza sempre preoccupate di verificare che l’internazionalità fosse ben conosciuta dalle parti al momento della conclusione del contratto o, in altre parole, che il contratto non apparisse essere un contratto meramente «nazionale»[27].
f) Da ultimo va poi verificato che le parti non abbiano fatto ricorso alla possibilità di escludere l’applicazione della Convenzione, possibilità prevista dall’art. 6 che ne sancisce la sua natura «dispositiva[28]».
Detta esclusione si ritiene possa avvenire anche tacitamente[29], ma non può, ad esempio, essere desunta dal mero silenzio dei difensori in merito alla Convenzione: infatti «per poter ritenere che le parti abbiano inteso escludere l’applicazione della Convenzione deve infatti risultare in modo univoco che esse si sono rese conto della sua applicabilità, e ciò nonostante abbiano insistito nel fare riferimento unicamente alla disciplina interna. Nel caso in esame, dalle difese svolte dai rispettivi avvocati non risulta che le parti si siano rese conto dell’applicabilità della Convenzione delle Nazioni Unite perciò non possono aver voluto escluderne – neppure implicitamente – l’applicazione, scegliendo di fare esclusivo riferimento al diritto italiano. Quindi, in virtù del principio iura novit curia, spetta senz’altro al giudice determinare quali siano le norme italiane applicabili … norme che devono essere individuate, per tutte le ragioni sopra esposte, nelle disposizioni della Convenzione in esame»[30].
4. Alcuni aspetti della disciplina uniforme della vendita internazionale di merci: vizi e difetti della merce, termini di denunzia, termini di adempimento, “Nachfrist” e buona fede.
Di grande interesse, ovviamente, è il modo in cui la Convenzione in esame regola quelle che, in materia di vendita, costituiscono indubbiamente alcune delle problematiche “costanti”, ossia la disciplina dei vizi e dei difetti della merce, dei termini per la loro denuncia, dei termini per l’adempimento, ecc.
Per risolvere la questione dei vizi di conformità, ad esempio, punto di partenza del ragionamento delle decisioni in esame sono stati gli artt. 35 e s. della Convenzione.
Secondo l’art. 35, infatti, il venditore deve consegnare beni della quantità, qualità e tipo richiesti dall’acquirente, che siano disposti od imballati conformemente alle previsioni contrattuali.
I beni devono considerarsi difettosi se inidonei all’uso al quale servono abitualmente cose dello stesso tipo oppure se inidonei allo specifico uso al quale il compratore intende adibirli, sempre che sia stato portato a conoscenza del venditore; se non possiedono le qualità dei beni che l’acquirente ha presentato al compratore come campione o modello, e se non sono disposti o imballati secondo il modo usuale per beni dello stesso tipo o, in difetto di un modo usuale, in un modo che sia comunque adeguato per conservarli e proteggerli.
Qualora i beni risultino difettosi, l’acquirente deve, per non perdere il diritto di far valere il difetto di conformità, denunciare al venditore i difetti, specificandone per quanto possibile la natura, entro un «tempo ragionevole» dal momento in cui li ha scoperti o avrebbe dovuto scoprirli (art. 39, 1° comma): momento che va stabilito in base all’art. 38, ai sensi del quale «il compratore deve esaminare i beni o farli esaminare nel più breve tempo possibile avuto riguardo alle circostanze» e «se il contratto implica il trasporto dei beni, l’esame può essere differito fino all’arrivo dei beni a loro destinazione».
In ordine alla tempestività della denuncia, si è ritenuto, sulla scorta anche della numerosa giurisprudenza straniera citata, che il «tempo ragionevole» in cui essa va fatta, trattandosi di concetto talvolta definito «clausola generale»[31], va determinato caso per caso, tenendo conto delle circostanze della fattispecie concreta[32] e tenendo altresì presente la natura dei beni oggetto della compravendita, cosicché se tali beni, ad esempio, sono beni deperibili, il «tempo ragionevole» della denuncia è in generale più breve di quello entro il quale deve essere fatta la denuncia del difetto di conformità di beni non deperibili[33], e inoltre che nel determinare se la denuncia è tempestiva occorre anche tener conto della volontà dei contraenti, essendo l’art. 39, 1° comma (come tutti gli articoli della Convenzione delle Nazioni Unite, fatta eccezione per gli articoli 12 e 89 – 101) norma derogabile dalle parti, per cui se queste hanno previsto un termine entro il quale la denuncia del difetto di conformità deve essere effettuata e tale termine non viene rispettato, l’acquirente perde senz’altro il diritto di far valere tale difetto[34].
Il decorso ragionevole del termine di denuncia di cui all’art. 39 è strettamente collegato all’altro onere imposto al compratore dall’art. 38, ossia quello di esaminare i beni o farli esaminare nel più breve tempo possibile[35]. Tale termine, ed il suo immediato decorso dal momento del ricevimento dei beni, è evidentemente inteso a dare certezza al rapporto giuridico, mirando per questa via a favorire lo sviluppo dei traffici internazionali: così come il compratore ha interesse a conoscere quanto prima l’esistenza di vizi o difetti, così il venditore ha indubbiamente interesse a sapere che la controparte è rimasta soddisfatta della merce, che non solleverà in futuro considerazioni di sorta, e che pertanto il rapporto può considerarsi positivamente esaurito.
Il Tribunale di Vigevano, nel caso della fornitura di gomma vulcanizzata i cui difetti sono stati denunciati dopo quattro mesi dalla scoperta, in seguito alle suddette considerazioni (e dopo aver riportato giurisprudenza straniera secondo cui una denuncia fatta dopo quattro mesi dalla scoperta del difetto di conformità o dal momento in cui tale difetto dovrebbe essere scoperto non è stata giudicata come effettuata in un “termine ragionevole”, nonché altra giurisprudenza straniera in cui una denuncia è stata dichiarata tardiva anche se fatta dopo tre mesi, o anche soltanto dopo 25 giorni, nonché altra giurisprudenza ancora che invece l’hanno considerata valida benché fatta dopo un mese), ha, nella fattispecie, considerato tardiva la denuncia.
Si è peraltro chiarito che detta denuncia non deve avere una forma particolare, potendo essere fatta anche oralmente o via telefono; che non solo deve essere tempestiva ma deve anche specificare la natura del difetto, per dare al venditore la possibilità di verificare la fondatezza e l’esattezza della denuncia, affinché egli possa eventualmente compiere un’attività di conformazione.
Nel caso di specie, tra l’altro, il Tribunale di Vigevano ha anche considerato non sufficientemente specifica la denuncia poiché il mero riferimento al fatto che i beni «avevano causato problemi» non metteva il venditore nella posizione di poter scegliere come comportarsi, «come non lo fanno neppure denunce dal contenuto simile, come ad esempio quelle che affermano soltanto e genericamente che “i beni sono difettosi in tutte le loro parti[36]”».
Da ultimo la corte lombarda ha pure esaminato se vi erano i presupposti (negandone nel caso di specie la sussistenza) di cui agli artt. 40 e 44 della Convenzione che permettono al compratore, in determinate ipotesi (rispettivamente se il venditore era a conoscenza dei difetti del materiale fornito o non poteva ignorarli oppure se la tardività della denuncia abbia una «ragionevole giustificazione»), di far valere il difetto di conformità anche in mancanza di un’adeguata denuncia.
Il Tribunale di Rimini, in ordine alla tempestività della denuncia dei vizi della fornitura di porcellane per ristorazione, ha svolto considerazioni analoghe, osservando tuttavia che ai fini di stabilire se la denuncia è tempestiva occorre tener conto, in difetto di un termine convenzionalmente fissato dalle parti, anche degli usi ex art. 9 della Convenzione nonché delle pratiche instauratesi tra le parti.
Ha quindi considerato tardiva la denuncia (nella fattispecie fatta dopo sei mesi dalla consegna dei beni) sul rilievo, altresì, dell’esigibilità, in capo all’acquirente, di un previo esame a campione dei beni compravenduti, che secondo costante giurisprudenza (straniera: vengono citate una decisione tedesca ed una svizzera) costituisce comportamento diligente, concludendo quindi con la considerazione che «il termine di sei mesi appare effettivamente troppo esteso, sia sotto il profilo intrinseco, sia con riferimento alla natura dei beni compravenduti ed al loro utilizzo da parte del consegnatario».
Con riferimento, invece, alla decorrenza del termine di cui all’art. 38 (ossia il «più breve tempo possibile» entro cui esaminare o far esaminare i beni), il Tribunale di Rimini rileva che «può agevolmente osservarsi che per sua stessa ammissione la ricorrente esercita un’attività di ristorazione nella quale è assai frequente il ricorso all’uso di stoviglie o comunque di merce conforme al tipo compravenduto. Rispetto a tale uso, evidentemente, il decorso di un termine di sei mesi appare eccessivo …».
Quanto alla questione del termine per il pagamento del prezzo, il Tribunale di Padova, nell’affrontare il problema[37], ha richiamato innanzitutto l’art. 58 secondo cui «se il compratore non è obbligato a pagare il prezzo in un altro momento determinato, egli deve pagarlo quando, in conformità al contratto e alla presente Convenzione, il venditore mette a sua disposizione i beni o i documenti rappresentativi di essi … ».
Ne ha così ricavato che la Convenzione risulta imperniata sul principio della contemporaneità del pagamento del prezzo rispetto alla messa a disposizione dei beni o dei documenti rappresentativi della merce[38].
Si tratterebbe tuttavia di una mera regola di «dafault[39]», applicabile soltanto in mancanza della possibilità di individuare altrimenti il momento del pagamento.
A tal fine è stato allora dapprima preso in esame ovviamente il contratto, atteso che la volontà delle parti costituisce la fonte primaria della relativa disciplina. Dato però che le parti avevano stipulato il contratto oralmente, la corte è giunta alla conclusione che il contratto era stato concluso «senza specificare un termine di pagamento del prezzo».
A questo punto, allora, il Tribunale di Padova si è posto la domanda se esistano usi[40], rientranti in quelli che, ex art. 9, 2° comma prevalgono sulle disposizioni della Convenzione, idonei a stabilire quale dovesse essere il momento del pagamento (domanda alla quale ha dato risposta negativa)[41].
La corte, quindi, rilevato che dal momento della consegna, in cui era divenuto attuale il debito del compratore, a quello in cui era stato depositato il ricorso per ingiunzione erano trascorsi almeno sei mesi senza che l’opponente avesse effettuato il pagamento, ha statuito che «pur ipotizzando, come fa parte della dottrina, il dovere in capo al venditore di concedere all’acquirente un breve termine per il pagamento, nel caso in cui il compratore non sapesse in anticipo quando i beni gli sarebbero stati messi a disposizione, la società austriaca non poteva certo considerarsi obbligata ad attendere ulteriormente, né era tenuta ad intimare per iscritto (od in qualsiasi altra forma) il pagamento. Infatti, secondo l’art. 59 … “il compratore deve pagare il prezzo alla data determinata o determinabile in base al contratto ed alla presente Convenzione senza bisogno di alcuna richiesta o formalità da parte del venditore”. Ne consegue che a seguito del mancato pagamento il compratore è automaticamente in mora, senza cioè che occorra un ulteriore atto da parte del venditore[42]».
Con l’occasione il Tribunale ha esaminato anche un’ulteriore facoltà prevista dalla Convenzione a favore del venditore in caso di inadempimento dell’acquirente e cioè quella, prevista dall’art. 63, 1° comma, secondo cui il venditore ha diritto di «fissare al compratore un termine supplementare di durata ragionevole per l’adempimento delle sue obbligazioni».
E’ una norma, modellata sull’istituto della “Nachfrist” tedesca e speculare rispetto all’art. 47 della Convenzione che prevede lo stesso diritto in capo al compratore[43], che ha lo scopo di offrire al venditore (che voglia, in caso d’inadempimento dell’obbligazione di pagare il prezzo[44], risolvere il contratto senza doversi chiedere se possa trovare applicazione l’art. 25, che prevede un concetto assai generico di «inadempimento essenziale») uno strumento certo per ottenere la risoluzione del contratto.
Si tratta in ogni caso di una facoltà e non già di un onere né tantomeno di un obbligo, sicché, se decide di non concedere un termine supplementare, il venditore può agire immediatamente per ottenere il pagamento, anche facendo ricorso all’autorità giudiziaria (potrà però chiedere la risoluzione del contratto soltanto se l’inadempimento potrà essere qualificato come «essenziale» ai sensi del citato art. 25).
Se invece il venditore fissa[45] un termine supplementare, fintanto che questo non sia scaduto egli non può risolvere il contratto, né agire per l’adempimento[46]. Scaduto il termine, il venditore può immediatamente chiedere la risoluzione del contratto, indipendentemente dal fatto che l’inadempimento possa essere qualificato come «essenziale», così come può agire in giudizio per il pagamento del prezzo.
L’indicazione di un termine preciso non è tuttavia sufficiente, occorrendo anche che questo sia ragionevole, dovendo cioè il creditore attenersi al criterio della correttezza[47]: «… Più in generale, la condotta dei contraenti dev’essere rispettosa del principio di buona fede, il quale, in quanto costituisce uno dei principi generali sui quali la Convenzione si basa … informa l’intera disciplina della compravendita internazionale … ma offre altresì un’imprescindibile canone per l’interpretazione delle disposizioni della Convenzione (v. art. 7, 1°comma). Si deve perciò ritenere che sia contrario a buona fede rivolgersi al giudice pochi giorni dopo la scadenza del termine di pagamento del prezzo, senza avere richiesto al compratore spiegazioni sul ritardo oppure avere concesso al medesimo un termine per provvedere all’adempimento. Non può invece giudicarsi scorretto il comportamento del venditore, il quale si rivolga al giudice dopo avere atteso per ben sei mesi il pagamento del prezzo, senza che nel frattempo il compratore abbia comunicato una qualche giustificazione del ritardo»[48].
5. Lacune della Convenzione di Vienna e modo di colmarle.
La giurisprudenza in commento si è anche occupata delle lacune e delle altre questioni non disciplinate dalla Convenzione delle Nazioni Unite.
E’ noto che, come tutte le convenzioni di diritto materiale uniforme, anche la Convenzione in esame non solo ha un ambito di applicazione limitato, ma possiede anche una portata limitata, nel senso che non risolve tutti i problemi sostanziali che possono sorgere dai contratti da essa disciplinati[49]. Ne è un esempio il fatto che l’art. 4 stabilisce espressamente che essa non si occupa né della validità del contratto, o delle singole sue clausole, né degli effetti che il contratto può produrre sulla proprietà dei beni compravenduti[50].
Il problema di come colmare le lacune della convenzione (gap – filling) è stato ben affrontato, ad esempio, dal Tribunale di Vigevano in riferimento all’onere della prova degli asseriti vizi, affermando che esso era a carico della ditta acquirente tedesca (e quindi dell’assicurazione surrogatasi nei suoi diritti) in base al principio «ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat» e respingendo così la domanda dell’attrice anche sotto tale profilo «… giacche questa prova non è stata data, né potrà più essere fornita non essendo più disponibili per colpa dell’attrice i beni compravenduti…
corollario del principio menzionato è – come spesso affermato dalla giurisprudenza straniera – che le eccezioni vanno provate dalla parte che le solleva … Ne consegue, ad esempio, che la parte che asserisce l’inapplicabilità della Convenzione a causa della mancata riconoscibilità dell’internazionalità del rapporto contrattuale deve provare questa mancata riconoscibilità; la parte che asserisce l’inapplicabilità della disciplina convenzionale dovuta all’esclusione della Convenzione fatta in virtù dell’art. 6 deve provare l’esistenza dell’accordo di esclusione…; non vi è dubbio che l’acquirente che asserisce l’inadempimento di controparte, e chiede su tale presupposto il risarcimento del danno subito, deve provare sia l’inadempimento sia il danno, così come deve provare il nesso causale tra il primo ed il secondo accadimento, ed anche che il danno rientra tra quelli risarcibili ex art. 74 della Convenzione…; con riferimento alla questione della non conformità dei beni compravenduti … spetta all’acquirente provare l’esistenza di un difetto di conformità … ed il danno che da ciò sia conseguito[51]…».
Tale principio infatti, malgrado non compaia nell’elenco delle materie regolate dalla Convenzione ex art. 4, viene tuttavia richiamato espressamente dall’art. 79, 1° comma a proposito dell’inadempimento, e deve pertanto ritenersi disciplinato ugualmente dalla Convenzione, costituendo uno dei principi generali (al pari dei seguenti ulteriori principi, individuati dalla giurisprudenza straniera[52], come quello, di cui si è già detto, della buona fede, ma anche della prevalenza dell’autonomia delle parti, della libertà della forma, della vincolatività degli usi generalmente conosciuti e regolarmente osservati, del diritto del venditore a percepire interessi in caso di ritardo dei pagamenti, del divieto di venire contra factum proprium, della mitigazione dei danni da parte del danneggiato, della limitazione del danno risarcibile a quello prevedibile, della full compensation nonché di quello secondo cui qualsiasi avviso od altro tipo di comunicazione effettuato o trasmesso dopo la conclusione del contratto produce effetti fin dal momento della sua spedizione) in conformità dei quali vanno risolte le questioni concernenti materie disciplinate dalla Convenzione ma dalla stessa non espressamente risolte, come previsto dall’art. 7, 2° comma[53].
Si tratta delle lacune cd. «praeter legem», o «lacune interne».
Allorché, invece, nel caso concreto, i suddetti principi ricavabili dalla Convenzione manchino ovvero siano all’uopo insufficienti, il medesimo art. 7, 2° comma impone di risolvere la questione «in conformità con la legge applicabile in virtù delle norme di diritto internazionale privato».
Si tratta, in questa seconda ipotesi, delle lacune cd. «intra legem», o «lacune esterne».
Tra queste ultime la giurisprudenza in commento fa rientrare la compensazione, la prescrizione, la cessione dei crediti, la rappresentanza o la validità di una clausola penale apposta dalle parti, in ordine alle quali, appunto, «occorre far ricorso alla giustizia di diritto internazionale privato per individuare il diritto sostanziale applicabile[54]».
In sostanza, la distinzione tra lacune interne ed esterne operata (sulla scia di innumerevoli sentenze straniere) dalla giurisprudenza in commento, rispecchia la distinzione prevista dall’art. 7, 2° comma, il cui scopo, come «norma di orientamento», non è molto diverso da quello al raggiungimento del quale tende anche la disciplina dell’interpretazione della Convenzione: i giudici dovrebbero, per quanto possibile, astenersi dal ricorrere alle varie leggi nazionali e sforzarsi di trovare una soluzione all’interno della Convenzione, in modo da poter più facilmente raggiungere l’obiettivo ultimo fissato dall’art. 7, 1° comma, ossia un’applicazione uniforme della Convenzione[55]; solo ove ciò non risultasse possibile si potrà far ricorso alle norme di conflitto.
Con riferimento alla compensazione (eccepita dalla ditta italiana al fornitore austriaco di patate invernali) il Tribunale di Padova è giunto alla conclusione di considerarla questione esclusa dall’ambito della Convenzione (e quindi lacuna esterna, disciplinata dal diritto applicabile in virtù delle norme di diritto internazionale privato) in base alla considerazione che la Convenzione non permette minimamente di risolvere i problemi connessi all’istituto della compensazione (come ad esempio l’individuazione dei requisiti che devono sussistere per poter compensare reciproci debiti); del resto, nel corso dei lavori preparatori, la questione non è mai stata affrontata e ciò spiega il silenzio del testo sul punto. Pertanto, la ricerca della disciplina nell’ambito delle disposizioni della Convenzione (o meglio, dei suoi principi generali) sarebbe fonte d’incertezza, per l’assenza di sicuri criteri di riferimento, con la conseguenza che, anziché promuovere soluzioni uniformi, la Convenzione finirebbe per generare soluzioni interpretative ampiamente discrezionali, risolvendosi in definitiva in un ostacolo allo sviluppo del commercio internazionale[56].
Per quanto riguarda il diritto concretamente applicabile alla fattispecie, il Tribunale di Padova osserva in primo luogo che, essendo il contratto da cui deriva il credito rispetto al quale la società debitrice oppone la compensazione un contratto di vendita internazionale, il diritto applicabile al contratto va individuato in base alla Convenzione dell’Aja del 1955.
Quest’ultima, non prevedendo un criterio di collegamento speciale per l’individuazione del diritto applicabile alla compensazione, individuerà pertanto la lex contractus attraverso il ricorso, in mancanza di una scelta della legge, all’art. 3, 1° comma, che rinvia al diritto del venditore[57] e dunque, nel caso concreto, al diritto austriaco.
Il contratto dal quale scaturisce il controcredito (eccepito in compensazione dalla ditta italiana), sempre in base al suddetto art. 3, 1° comma della Convenzione, sottostà invece al diritto italiano, il che non elimina pertanto il problema del diritto applicabile alla compensazione (come sarebbe invece avvenuto se i contratti che hanno fatto sorgere credito e controcredito fossero stati soggetti allo stesso diritto, il quale senz’altro, allora, sarebbe stato applicabile alla compensazione).
Il Tribunale risolve allora il problema applicando il diritto austriaco del venditore, scegliendo cioè il diritto del contratto da cui nasce il credito oggetto della disputa, ossia quello contro il quale è opposta la compensazione, e ciò in base al presupposto che, con l’eccezione di compensazione viene fondamentalmente in questione una vicenda che riguarda il credito, «come confermato dal fatto che l’accertamento del diritto opposto in compensazione (salvo casi particolari) avviene in via meramente incidentale quale elemento di fatto pregiudiziale all’accoglimento della domanda principale[58]».
6. Impossibilità del diritto uniforme ad eliminare il fenomeno del “forum shopping”.
Vale la pena evidenziare, da ultimo, anche un’altra statuizione della giurisprudenza in commento, secondo cui: «Il diritto materiale uniforme non riesce ad eliminare il forum shopping; le parti avranno sempre e comunque interesse a ricorrere al forum shopping, avvalendosi del sistema processuale nazionale che ritengono a loro più confacente: ciò, invero, con riguardo alle differenze relative al diritto delle prove, alle variabili condizioni di efficienza e rapidità dei procedimenti giudiziari, alla lingua del procedimento, alla reputazione di imparzialità del foro, all’eseguibilità della sentenza invocata[59]».
La corte, in contrasto con quella parte della dottrina secondo cui uno dei vantaggi del ricorso al diritto materiale uniforme anziché alla giustizia del diritto internazionale privato sarebbe dato dall’eliminazione del cd. forum shopping (cioè dell’attività dell’avvocato tendente alla ricerca della giurisdizione più favorevole al proprio cliente) si schiera, in sostanza, con chi invece afferma che l’elaborazione di testi uniformi «non conduce di per sé alla creazione di diritto uniforme[60]».
Di ciò, con riferimento alla Convenzione in esame, si sarebbero peraltro resi conto gli stessi redattori, che hanno sentito la necessità di inserire una disposizione quale il già citato art. 7, 1° comma, secondo cui «nell’interpretazione della presente Convenzione si deve aver riguardo al suo carattere internazionale e alla necessità di promuovere l’uniformità della sua applicazione».
Le ragioni più classiche per cui la Convenzione non è idonea a prevenire il fenomeno del forum shopping vengono dunque individuate nella diversità del diritto processuale (specie per quanto riguarda la diversità della disciplina delle prove, esistendo per esempio, in alcuni ordinamenti, la procedura della pretrial - discovery sconosciuta in altri ordinamenti[61]), nelle variabili condizioni di efficienza e rapidità dei procedimenti giudiziari, nella lingua del procedimento, nella reputazione di imparzialità del foro e nell’eseguibilità della sentenza che si vuole ottenere. Si possono aggiungere anche le diversità dei costi del procedimento e delle norme di diritto internazionale privato (in previsione, ad esempio, di dover colmare una lacuna intra legem).
Da notare che tra gli altri motivi che possono indurre a radicare la causa in un determinato foro piuttosto che in un altro, il Tribunale cita altresì il «fatto che nei vari Paesi le convenzioni vengono interpretate in modo (talvolta anche molto) diverso, con la possibile configurazione di risultati anche opposti sul piano materiale», a conferma che è proprio una ragione strettamente collegata alla natura della disciplina sostanziale (una convenzione di diritto materiale uniforme) che «permette di sostenere che l’unificazione del diritto materiale uniforme di per sé non è idoneo a sradicare il fenomeno del forum shopping[62]».
[1] Franco Ferrari: Nuove e vecchie questioni in materia di vendita internazionale tra interpretazione autonoma e ricorso alla giurisprudenza straniera. Nota a Trib. Padova, sez. distaccata di Este, 25 febbraio 2004, in Giur. It., 2004, 1405 s.
[2] In Giur. It., 2001, 281 s., Giudice Unico Dr. Rizzieri.
[3] In Giur. It., 2003, 896 s., Giudice Unico Dr. Cortesi.
[4] In Giur. It., 2004, 1402 s., Giudice Unico Dr. Rizzieri.
[5] Che, nel caso della vendita internazionale di merci, è la Convenzione dell’Aja del 1955 sulla legge applicabile alle vendite a carattere internazionale di beni mobili corporali, la quale prevale sulla Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Cass. SS. UU. n. 448/2000 in Foro It. 2001, I, 527).
[6] Attualmente ratificata da 62 Stati, tra cui Stati Uniti, Cina, Germania, Francia e Russia (ultimo l’Honduras il 10.10.2002, con entrata in vigore della Convenzione l’1.11.2003) e con esclusione di Regno Unito e Giappone (Davide Milan, La vendita internazionale, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Paolo Cendon, I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, vol. XI: Figure della contrattazione internazionale, Utet, 2004, 23.1, 149).
[7] Trib. Vigevano, cit.
[8] «avendo … l’Italia aderito alla citata Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sui contratti di vendita internazionale di merci, la legge italiana è sostituita dalle norme di detta Convenzione …» (Cass. SS. UU. n. 448/2000 in Foro It., 2001, I, 530).
[9] Franco Ferrari, Problematiche tipiche della Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili risolte in una prospettiva uniforme, in Giur. It., 2001, 283.
[10] «Ne segue in particolare la rilevanza della giurisprudenza degli Stati contraenti diversi da quelli del foro. In sede UNCITRAL è stata di recente assunta un’iniziativa mirante a raccogliere e a diffondere la giurisprudenza relativa alla convenzione…» (Tullio Treves, in Codice delle convenzioni di diritto internazionale privato e processuale», F. Pocar, T. Treves, R. Clerici, P. De Cesari, F. Trombetta-Panigardi, Giuffré, 1999, 3ª ed., 511). V. anche Enrica Landolfi, «Mai sentito parlare dell’Uncitral?», articolo reperibile sul sito internet: http://www.diritto.it/articoli/comm_int/uncitral.html.
[11] Trib. Vigevano cit., nonché Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni …, cit.
[12] Sant’Elia, Editorial remarks on Trib. Vigevano, 12 July 2000, pubblicato su internet al seguente sito: http://cisgw3.law.pace.edu/cisg/wais/db/cases2/000712i3.html.
[13] Tra i siti internet ove reperirle vedi: http://www.uncitral.org/en-index.htm, http://www.unilex.info/, http://www.cisg-online.ch/index.html, http://witz.jura.uni-sb.de/index.htm, http://www.cisg.at/, http://cisgw3.law.pace.edu/cisg/text/cisg-toc.html, http://www.law.kuleuven.ac.be/ipr/eng/, http://soi.cnr.it/~crdcs/crdcs/index.htm. La stessa sentenza del Tribunale di Vigevano è peraltro stata tradotta in diverse lingue (v. Franco Ferrari: Vendita internazionale tra forum shopping e diritto internazionale privato: brevi note in occasione di una sentenza esemplare relativa alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1980, in Giur. It., 2003, 896, nota n. 3).
[14] Franco Ferrari, Problematiche tipiche …, cit.
[15] Sulle problematiche in ordine al fatto che la Convenzione sembri estendere la nozione tipica della vendita per regolare, entro i suddetti limiti, fattispecie contrattuali che secondo il nostro codice (e quello di molti altri paesi), potrebbero essere invece sussunte all’appalto e al contratto d’opera, oppure a certe figure negoziali complesse di dare e fare, cfr. Davide Milan, La vendita internazionale, cit., 161 s.
[16] A proposito del contratto di distribuzione, infatti, si è detto: «si tratta piuttosto di un contratto che la stessa Suprema Corte ha in altre occasioni definito come «contratto quadro» in virtù del quale un soggetto assume l'obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti che gli vengono forniti a seguito della stipulazione di singoli contratti d'acquisto, un contratto, quindi, che nel disciplinare una situazione finale fa sorgere un'obbligazione che va adempiuta attraverso «un novello contrahere», e non, come invece richiesto dall'art. 30 della Convenzione di Vienna con riferimento ai contratti da essa disciplinati, attraverso il trasferimento della proprietà e la consegna dei beni compravenduti. Ed è proprio questo che ha portato la dottrina sia italiana che straniera ad escludere i contratti di distribuzione dall'àmbito di applicazione ratione materiae della Convenzione di Vienna, con la conseguenza che non si può ricorrere alla Convenzione di Vienna quando una doglianza non riguarda i singoli contratti - che possono sì essere qualificati come contratti di compravendita - conclusi in esecuzione del «contratto quadro», bensì l'inottemperanza all'obbligo preliminare di inoltrare ordini per un quantitativo minimo. Apparentemente la Suprema Corte non ha tenuto conto della dottrina in materia. Il dato più deplorevole, tuttavia, è che la Suprema Corte non ha neppure tenuto conto della necessità - imposta non soltanto dalla Convenzione di Vienna dalla stessa Suprema Corte richiamata, ma anche dall'art. 2, comma 2 della l. 31 maggio 1995 n. 218 - di avere riguardo - ai fini di promuovere un'applicazione uniforme della Convenzione di Vienna - alla giurisprudenza straniera in materia, la quale nega in modo categorico che al contratto di distribuzione internazionale possa applicarsi la Convenzione di Vienna.
In Germania la giurisprudenza ha sottolineato a più riprese che non sono soggetti alla Convenzione di Vienna gli accordi di distribuzione; anche la giurisprudenza svizzera, come anche quella olandese, ungherese e statunitense hanno avuto occasione di ribadire che il contratto di distribuzione non rientra fra i tipi contrattuali ai quali è applicabile la Convenzione di Vienna. Lo stesso può dirsi della giurisprudenza arbitrale.
La giurisprudenza, come anche la dottrina, ha però affermato che la Convenzione di Vienna è applicabile - se sussistono tutti i requisiti di applicabilità - ai singoli contratti di vendita conclusi in esecuzione dell'accordo di distribuzione. A nostro avviso, ciò deve valere addirittura indipendentemente dal fatto che l'accordo di distribuzione sia stato concluso prima dell'entrata in vigore della disciplina convenzionale purché sussistano, per quanto riguarda i singoli contratti di compravendita, i requisiti temporali di applicazione (previsti dall'art. 100 della Convenzione di Vienna)» (Franco Ferrari, nota a Cass. SS. UU. n. 895/1999, in Giust. Civ., 2000, I, 2333).
[17] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[18] Tullio Treves, 511, cit.
[19] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[20] Come espressamente sancito dall’art. 1, 3° comma della Convenzione stessa, secondo cui «Né la nazionalità delle parti né il carattere civile o commerciale delle parti o del contratto devono essere presi in considerazione ai fini dell’applicazione della presente Convenzione».
[21] Davide Milan, La vendita internazionale, cit., 154.
[22]Tuttavia, tra le varie riserve che La Convenzione consente di formulare, è prevista la facoltà per gli Stati contraenti di limitare la sua applicazione dichiarando, ai sensi dell’art. 95, che non saranno vincolati da detto art. 1, comma 1, lett. b).
[23] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[24] V. l’art. 11 della Convenzione.
[25] Si è detto, ad esempio, che la norma «si riferisce in concreto alle, e tende a soddisfare l’esigenza di escludere le, ipotesi in cui una parte avente il proprio place of business nello Stato A stipuli, per il tramite di un intermediario situato nello Stato B, un contratto di vendita con una controparte avente il proprio place of business nello stesso Stato B, senza che l’intermediario riveli l’identità del proprio mandante» (Carbone e Lopez de Gonzalo, Commento all’art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, in Leggi civ. comm. 1989,2-3).
[26] Davide Milan, La vendita internazionale, cit., 156.
[27] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[28] «Ci si è chiesti se l’autonomia delle parti di cui all’art. 6 ha natura internazionalprivatistica o di autonomia contrattuale, il che porterebbe a diverse conseguenze in tema di applicabilità delle norme imperative e per quanto attiene alla possibilità che le parti possano estendere al di là del suo ambito di applicazione la portata della normativa della Convenzione di Vienna. In realtà la Convenzione non dà indicazioni sul punto, lasciando aperte le due possibiltà, che pertanto possono risultare dall’interpretazione dei singoli atti di autonomia delle parti» (Tullio Treves, 513, cit.).
[29] L’esclusione o la deroga possono essere implicite, anche se occorre una certa cautela nel dedurle dalle clausole contrattuali e dal comportamento delle parti; occorre in altre parole una volontà reale e non soltanto fittizia (Cfr. Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.).
[30] Così Trib. Padova – Sez. Distaccata Este, cit., nonché Trib. Vigevano, cit.
[31] Pretura Torino, 30 gennaio 1997.
[32] Trib. Cuneo, 31 gennaio 1996.
[33] Qualora invece il difetto fosse di tale particolarissima natura da rimanere occulto e non conoscibile anche a chi avesse diligentemente controllato la qualità della materia ricevuta prima di utilizzarla nella produzione ed anche nel corso della sua lavorazione, in tal caso anche una denuncia effettuata quattro mesi dopo il ricevimento della merce non potrebbe ritenersi tardiva (Trib. Vigevano cit.). Si veda anche l’art. 44 della Convenzione che consente, in presenza di una «ragionevole giustificazione», anche l’omissione di una adeguata denuncia.
[34] E’ stato escluso che l’indicazione da parte della venditrice del termine di otto giorni dal ricevimento della merce apposto sulle fatture avesse efficacia, trattandosi di documenti di formazione unilaterale, peraltro successivi alla formazione del contratto di compravendita.
[35] «Diviene così evidente lo stretto legame tra l’art. 39 e l’art. 38 (come evidenziato dalla giurisprudenza straniera …), ovvero fra i doveri di ispezione e tempestiva denunzia, sempre gravanti sul compratore» (Trib. Rimini, cit.).
[36] Secondo giurisprudenza straniera “non mettono il venditore nella condizione di apportare i provvedimenti necessari anche gli ulteriori reclami di tipo generico: «difetti in ogni pezzo»; «qualità difettosa o consegna non conforme»; «cattiva lavorazione, ecc.»” (Franco Ferrari, Problematiche tipiche … cit.).
[37] La ditta opponente italiana lamentava che la società austriaca non l’aveva messa in mora, diffidando il pagamento, «così che nulla poteva sapere (la società acquirente) prima della notifica del decreto ingiuntivo circa le pretese avversarie» ed affermava pertanto che «di conseguenza non erano dovute le spese liquidate dal giudice al momento della concessione del decreto ingiuntivo».
[38] Da non confondere con la contemporaneità del pagamento del prezzo rispetto alla consegna della merce: «Infatti, i redattori hanno intenzionalmente collegato il pagamento del prezzo ad un momento che necessariamente precede la consegna della merce, anche per fare sì che l’acquirente non possa postporre il pagamento del prezzo arbitrariamente, non rendendosi disponibile a ricevere la consegna della merce» (Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.).
[39] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[40] «… Non va infine dimenticato che, accanto alle norme convenzionali in atto o in progetto, esistono in materia di vendita internazionale numerosi usi commerciali spesso codificati da associazioni professionali. Tra questi ultimi hanno preminente importanza quelli raccolti nelle «regole internazionali per l’interpretazione dei termini commerciali», comunemente indicate come Incoterms predisposte dalla Camera di Commercio Internazionale. Esse forniscono l’interpretazione di tutta una serie di clausole comunemente usate nei contratti di vendita internazionale» (Tullio Treves, 513, cit).
[41] Il Tribunale avrebbe così stabilito una sorta di «gerarchia delle fonti per i contratti di compravendita internazionale disciplinati dalla Convenzione della Nazioni Unite: volontà delle parti, usi dei quali le parti sono a conoscenza e che, nel commercio internazionale, sono generalmente riconosciuti e regolarmente osservati dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato, ed infine disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite», v. Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[42] «… come confermato non soltanto in dottrina ma anche in giurisprudenza» (Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.).
[43] v. Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[44] «… o di prendere in consegna i beni, ma anche di una qualsiasi obbligazione derivante o dal contratto o dalla Convenzione stessa, a condizione, tuttavia, che il venditore non si sia avvalso di un rimedio incompatibile con la richiesta di adempimento …» (Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.).
[45] «In una qualsiasi forma, scritta od orale che sia»: Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[46] Né può avvalersi degli altri rimedi previsti dalla Convenzione, come la specificazione di cui all’art. 65 o la vendita della merce prevista dall’art. 88, 1° comma: v. Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[47] «… tale ragionevolezza, in mancanza della quale la proroga non ha alcun effetto, deve essere determinata caso per caso, sulla base anche degli svantaggi che dalla fissazione di un termine supplementare possono derivare al venditore, come ad esempio il perimento della merce, i costi di custodia in magazzino e la mancanza di liquidità» (Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[48] Trib. Padova – Sez. Distaccata Este, cit.
[49] Essa, cioè, «non si pone come disciplina esaustiva»: Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni … cit.
[50] Franco Ferrari, Vendita Internazionale tra forum shopping …, cit.
[51] Trib. Vigevano, cit.
[52] Franco Ferrari, Vendita Internazionale tra forum shopping …, cit.
[53] Trib. Rimini, cit.
[54] Trib. Vigevano, cit.
[55] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni …, cit.
[56] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni …, cit.
[57] Art. 3, 1° comma: «La vendita è disciplinata dalla legge interna del Paese in cui il venditore ha la sua residenza abituale nel momento in cui riceve l’ordine».
[58] Franco Ferrari, Nuove e vecchie questioni …, cit.
[59] Trib. Rimini, cit.
[60] Franco Ferrari, Problematiche tipiche …, cit.
[61] Franco Ferrari, Vendita internazionale tra forum shopping …, cit.
[62] Franco Ferrari, Vendita internazionale tra forum shopping …, cit.
Nessun commento:
Posta un commento