venerdì 26 novembre 2010

Provvigione? Non serve l’incarico: basta non rifiutare l’attività del mediatore che porta alla conclusione dell'affare.

Nonostante il suo inserimento nel titolo dedicato ai singoli contratti, la mediazione sarebbe, secondo alcuni, una fattispecie non contrattuale, giacché il rapporto di mediazione è il prodotto della messa in relazione di soggetti per opera del mediatore, a prescindere da un eventuale accordo intercorso tra essi, per cui l’attività del mediatore risulta libera e volontaria[1].

Secondo tale interpretazione è perciò sufficiente che vi sia la mera attività non negoziale, corredata dai caratteri tipici individuati dalla legge, affinché si producano gli effetti della mediazione, per cui non è necessaria la manifestazione di un intento negoziale che pur può verificarsi.

In altri termini, secondo la tesi acontrattualistica della mediazione, tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare è necessario che via un nesso di causalità, indipendentemente dal fatto che entrambe le parti abbiano inteso valersi dell’opera del mediatore, a nulla rilevando la consapevolezza, o no, in capo alle parti di servirsi della collaborazione del terzo[2].

Per i contrattualisti, invece, non potrà mai esservi mediazione qualora gli interessati non siano stati messi nella condizione di conoscere l’attività del mediatore e, quindi, di valutare l’opportunità, in termini di efficienza economica, di avvalersi del suo operato[3].

Nondimeno, anche l’idea della mediazione di natura non negoziale ammette l’eventualità che, nella pratica, si possa configurare un modello contrattuale: in altre parole, la mediazione può anche nascere da un incarico, ma non necessariamente ne presuppone l’esistenza[4].

La più recente giurisprudenza pare invero attestarsi su tali posizioni: si sostiene cioè la natura ambivalente della mediazione, nella sua duplice configurazione, tipica e atipica[5].

Si ammette cioè che, in base al principio dell’autonomia negoziale, accanto alla mediazione ordinaria o tipica, prevista dall’art. 1754 c.c., le parti possano dar luogo a una mediazione negoziale definita «atipica», fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, la quale ricorre quando tutte o anche soltanto una delle parti interessate, volendo concludere un affare, incaricano altri di svolgere un’attività finalizzata alla ricerca di un soggetto disponibile alla conclusione del medesimo affare, a condizioni predeterminate.

La mediazione atipica è qualificabile come contratto misto nel quale, a fianco degli elementi della mediazione, si collocano elementi tipici del mandato; anzi,  per la Cassazione gli artt. 1756 e 1761 c.c. legittimano la possibile conformazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c.

Quanto alla mediazione ordinaria (o tipica), si afferma in ogni caso che, in base all’art. 1754 c.c.:

a)  essa prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso di attivarsi per la conclusione dell’affare, in quanto viene svolta in difetto di un apposito titolo giuridico, atteso che per aversi mediazione non è necessario un incarico;

b) la «messa in relazione» delle parti ai fini della conclusione di un affare è perciò qualificabile come attività giuridica in senso stretto[6];

c) tale attività viene individuata come fonte del rapporto obbligatorio in base all’ultima parte dell’art. 1173 c.c.: l’obbligazione deriverebbe cioè da attività riconducibile alla locuzione «ogni altro fatto idoneo» a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico[7].

Si ritengono rapporti di tipo contrattuale quelli tutelati dalla responsabilità sancita dagli artt. 1218 ss. c.c. e più comunemente tutti quei rapporti patrimoniali che non sorgono da fatto illecito, bensì dalle altre fonti indicate nell’art. 1173 c.c.: si parla così di «rapporti contrattuali di fatto» quando un rapporto nasce da una fattispecie legale diversa dal contratto, vale a dire da un fatto[8].

Questa condicio facti è conosciuta con il nome di «contatto sociale»: ciò avviene allorché, secondo la previsione legale, i rapporti sono di matrice contrattuale, ma nella realtà effettiva essi si formano senza alcuna base negoziale.

L’ipotesi è quella di una parte che esegue una prestazione a favore di un destinatario con cui entra in contatto, senza esserne obbligata: ciò che differenzia questa fattispecie da quella contenuta nell’art. 1327 c.c. è, appunto, la mancanza di una espressa proposta.

Se un rapporto sociale di mero fatto coinvolge un interesse di particolare valore[9], che non trova adeguata tutela nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e comporta un’obbligazione atipica di protezione a carico del soggetto che rispetto ad esso assume in concreto una funzione di garanzia e di controllo, si parla allora di «contatto sociale qualificato», ossia di un rapporto reale tra due soggetti - non legati da un contratto già stipulato – in forza del quale uno di essi è tenuto all’esecuzione, in favore dell’altro, di prestazioni proprie di una relazione di tipo contrattuale.

Il rapporto sarebbe quindi di tipo obbligatorio ma privo di un obbligo primario di prestazione: il soggetto non è obbligato ad effettuare la prestazione, ma se la inizia volontariamente risponde, in caso di relative patologie, ai sensi dell’art. 1218 c.c. e non a titolo extracontrattuale.

Oggetto del rapporto obbligatorio è, quindi, la corretta esecuzione della prestazione inizialmente non dovuta, e l’obbligo deriva dal generale dovere di rispetto dell’altrui sfera giuridica, cui si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a salvaguardare la tutela di interessi manifestati o esposti a pericolo in occasione del contatto sociale[10].

L’aver ricondotto la natura della mediazione ad un rapporto fattuale da “contatto sociale” consente di trarre importanti considerazioni sotto l’aspetto del regime di responsabilità dell’intermediario: per la Suprema Corte, ad esempio, essendo questi una figura professionale[11], la sua responsabilità andrebbe inquadrata, anziché sub specie aquiliana, nell’ambito di quella già tracciata dalla giurisprudenza con specifico riferimento alla figura del medico ed alle sue prestazioni prescindenti da un rapporto contrattuale[12], denominata appunto “da contatto sociale”; ciò in quanto “tale situazione è riscontrabile nei confronti dell’operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l’iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed imprenditoriali) [13].

Per i “contrattualisti”, del resto, è sempre stato pacifico che l’incarico potesse esplicarsi in un atto comunicativo espresso per facta concludentia, vale a dire nella semplice utilizzazione consapevole dell’attività del mediatore; in altre parole, c’è incarico anche quando si dimostri semplicemente che le parti hanno avuto consapevolezza dell’intermediazione, valorizzandola come tale.

Per costoro dunque, il consenso necessario per ritenere concluso il contratto di mediazione, ove non sia frutto di uno specifico incarico conferito al mediatore, può essere manifestato validamente anche in modo «tacito», come quando la parte si avvalga consapevolmente dell’opera del mediatore[14], e la consapevole utilizzazione, da parte degli interessati, dell’attività del mediatore equivarrebbe ad un contegno il cui significato sociale è, indipendentemente dalla effettiva volontà (interiore) delle parti, quello di un atto decisionale espressivo della volontà di conferire un incarico mediatorio.

Sicché, nel caso specifico in cui una parte usufruisca di una prestazione altrui, sarà comunque sempre necessario valutare se quel contegno è socialmente valutato come accettazione della prestazione.

Il «contratto di fatto» concluso mediante un contatto sociale, costituirebbe allora pur sempre un contratto per il quale è pur sempre necessario un consenso, anche se funzionalmente qualificato: «si tratta di un consenso alla (propria o altrui) prestazione, e non del consenso (negoziale) alla nascita della propria obbligazione[15]», sicché, per l’insorgere del diritto alla provvigione, non è necessario il preventivo conferimento dell’incarico ma «la mera circostanza della valorizzazione consapevole dell’opera» del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare[16].

Si può pertanto affermare che il diritto alla provvigione si basa sulla sussistenza dei seguenti presupposti: la conclusione dell’affare ed il nesso di causalità tra l’attività del mediatore e l’affare concluso[17]; non è pertanto necessaria la presenza di un incarico, ma è sufficiente che l’opera del mediatore non venga rifiutata dal soggetto intermediato.

Con la mediazione, infatti, la legge riconosce ad un operatore professionale che svolge un’attività con la quale mette in contatto due o più parti che concludono un affare, il diritto ad un compenso che, gli usi, quantificano in una percentuale sul valore dell’operazione.

Non rispondendo il contratto di mediazione allo schema consensualistico e bilaterale degli altri tipi (come emerge peraltro dalla stessa analisi strutturale dell’art. 1754 c.c.) è la sua attuazione a produrre l’effetto di vincolare tanto il mediatore quanto il destinatario; quest’ultimo, tuttavia, ha sempre la possibilità di paralizzare gli effetti dell’esecuzione esprimendo il proprio dissenso all’attività svolta dal mediatore, prima del prodursi del risultato (salvo, naturalmente, nel caso in cui, all'atto della convenzione negoziale, sia stato concertato l'obbligo di corresponsione della provvigione, da parte del cliente,  indipendentemente dalla conclusione dell'affare e per effetto della semplice acquisizione, da parte del mediatore, di un'offerta omogenea a quella indicatagli).

Caratteristica del rapporto di mediazione è infatti la facoltà di recesso senza alcuna responsabilità, che la dottrina e la giurisprudenza unanimemente riconoscono alle parti[18].

Pertanto si può ben affermare che «nella mediazione, l’attuazione equipara il silenzio delle parti a consenso; oppure, che l’attuazione conclude un contratto non consensuale, purché non intervenga una previa rinunzia (da parte del mediatore) o una prohibitio (da parte del cliente)[19]».


[1] Negano la natura contrattuale, tra gli altri, L. CARRARO, La mediazione, Padova, 1960, 1 ss.; G. FERRI, Manuale del diritto commerciale, Torino, 1988, 987 ss.; CARTA, Mediazione di contratto non contratto di mediazione, in Foro It., 1988, I, 296; G. MIRABELLI, Promessa unilaterale e mediazione, in Riv. dir. comm., 1953, I, 165 ss.; A. CATAUDELLA, Note sulla natura giuridica della mediazione, in Riv. dir. comm., 1978, I, 361 ss.; A. CATRICALÀ, La mediazione, in Tratt. di diritto privato, a cura di P. Rescigno, 12, Torino, 1986, 403 ss.
[2] Cfr. A. LUMINOSO, La mediazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1993, 31. La giurisprudenza anticontrattualistica ha osservato che la mediazione si ricollega all’attività del mediatore, funzionale rispetto alla conclusione del contratto, autonomamente disciplinata dalla legge e scaturente dalla semplice opera del mediatore: così Cass. 25 ottobre 1991, n. 11384, in Giur. it., 1992, I, 1, 1059, nota di BAIOCCO, per cui, qualora l’attività viene svolta a favore di un ente pubblico, il mediatore ha diritto al compenso senza che per il conferimento dell’incarico sia necessaria la forma scritta, la quale resta obbligatoria per la stipulazione di contratti da parte di enti pubblici.
[3] Vedi Cass., 28.7.1983, n. 5212, in Mass. Giur. It., 1983; Id., 6.6.1989, n. 2750, in Mass. Giur. It., 1989; Id., 14.12.1988, n. 6813, in Mass. Giur. It., 1988; Id., 14.4.1994, n. 3472, in Mass. Giur. It., 1994.
[4] Cfr. Cass., 1.6.2000, n. 7273, in Foro it., 2001, I, 562; e in Giust. civ., 2001, I, 784; Trib. Cagliari, 4.7.1994, in Riv. giur. sarda, 1996, 57, con nota di LUMINOSO, Sulla prova della mediazione.
[5] Cass. 14.7.2009, n. 16382.
[6] Cfr. S. MEZZANOTTE, Attività giuridica in senso stretto e responsabilità da contatto sociale nella mediazione, in Obbligazioni e Contratti, 2010, 11, 759 ss.
[7] L’ art. 1173 c.c. costituisce la base normativa che consente, talora, ad un fatto diverso dal contratto di dar vita ad un rapporto contrattuale.
[8] La categoria dei «contratti di fatto» – ovvero di quei rapporti modellati secondo il contenuto di uno specifico contratto tipico che non scaturiscono da atti di autonomia privata ma da fatti socialmente rilevanti  – è nata in Germania negli anni ’40 e fu espressione della denunzia della crisi della concezione individualistica espressa, appunto, dal contratto, e della riconduzione dei fatti sociali a fonte dei rapporti interprivati.: v. Haupt, Über faktische Verhältnisse, Lipsia, 1943; Simitis, Die faktischen Vertragsverhältnisse, Francoforte, s. M., 1957; Nikisch, Über faktische Vertragsverhältnisse, in Festschrift für Dölle, Tubinga, 1963.
[9] Si pensi ad un interesse di rango costituzionale, come ad esempio il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.
[10] V. ancora S. MEZZANOTTE, Attività giuridica in senso stretto e responsabilità da contatto sociale nella mediazione, cit.
[11] La l. 3.2.1989, n. 39 ha innovato decisamente la materia, introducendo il principio in virtù del quale l’attività di mediazione, quand’anche sporadica e saltuaria, può essere esercitata esclusivamente da soggetti appositamente abilitati; essa è, inoltre, sottoposta a vigilanza, nonché limitata da controlli e vincoli.
[12] V., tra le altre, Cass. S.U. 11.1.2008, n. 577; Cass. 24.5.2006, n. 12362 e Cass. 19.4.2006, n. 9085.
[13] V. Cass. 14.7.2009, n. 16382, cit., secondo cui il mediatore “tipico” è comunque tenuto all’obbligo di comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., estrinsecantesi, in specie, nell’obbligo di una corretta informazione, tra cui la comunicazione di tutte le circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, vertendosi senz’altro in tema di attività professionale per come ulteriormente ribadito dalla l. n. 39 del 1989. Tale obbligo di correttezza sussiste inoltre a favore di entrambe le parti, messe in contatto ai fini della conclusione dell’affare, quale comprensivo di qualunque operazione di tipo economico-giuridico. In particolare, il mediatore è tenuto a comunicare: l’eventuale stato di insolvenza di una delle parti, l’esistenza di iscrizioni o pignoramenti sul bene oggetto della conclusione dell’affare, la sussistenza di circostanze in base alle quali le parti avrebbero concluso il contratto con un diverso contenuto, l’esistenza di prelazioni ed opzioni. In caso di contenzioso tra il mediatore stesso e le parti, ne deriva, ancora, l’onere per il mediatore sia di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una delle parti, sia di dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base alla richiamata diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2, nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, mentre spetta alle parti fornire prova esclusivamente dell’avvenuto contatto ai fini della conclusione dell’affare. Il termine di prescrizione per far valere in giudizio detta responsabilità del mediatore è poi quello ordinario decennale e non quello quinquennale della responsabilità extracontrattuale.
[14] Così Cass. 6.6.1989, n. 2750; Cass. 14.4.1994, n. 3472, in Foro it., 1994, I, 1722; Trib. Milano, 19.5.2000; Cass. 22.5.2001, n. 6963.
[15] R. Sacco, La conclusione del contratto, cit., 60.
[16] Così testualmente Trib. Venezia, 30.8.2002, in “Dialoghi”, Cedam, 4, 2002, 199, con nota di R. SENIGAGLIA, “La mediazione come «contratto di fatto». Proposta irrevocabile e diritto alla provvigione; v. anche Cass. 5.3.2009, n. 5348 e Cass. 20.5.2002, n. 7253.
[17] Salva, in ogni caso, la legittimazione soggettiva dell’intermediario riconosciuta dalla sua iscrizione nel relativo ruolo ex lege n. 39/1989.
[18] Per Cass. 24.5.2002, n. 7630, infatti: «La conclusione di un contratto di mediazione non comporta l'obbligo, per la parte che abbia conferito l'incarico al mediatore, di concludere l'affare propostole da quest'ultimo, pur se esso risulti, del tutto conforme alle richieste originariamente avanzate, con la conseguenza che il conferente l'incarico di mediazione può, anche in assenza di giusta causa, liberamente recedere dal proseguire in questo suo intento, senza incorrere nella responsabilità di cui all'art. 1337 c.c. nei confronti del mediatore»; se, quindi, il soggetto che ha dato l'incarico di mediazione ha la facoltà di recedere ad nutum dal proseguire in questo suo intento, e non solo per una giusta causa, non è ontologicamente concepibile una sua responsabilità ex artt. 1337 e 1338 c.c. nei confronti del mediatore. Precisa poi la Corte, che se si segue la teoria non contrattualistica della mediazione, per cui essa non avrebbe natura negoziale, scaturendo i diritti e le obbligazioni tra il mediatore e le parti - e perciò il rapporto giuridico di mediazione - dalla "messa in relazione" delle parti (atto giuridico in senso stretto) ad opera dell'intermediario, a prescindere da ogni elemento di natura negoziale, una responsabilità precontrattuale sarebbe inconcepibile proprio per la mancanza di un contratto.  Se, invece, si segue – come la Corte ritiene preferibile - l'orientamento tradizionale, per cui la mediazione è pur sempre un contratto, l'inapplicabilità a tale contratto della responsabilità precontrattuale discende dalla struttura dello stesso.
[19] R. Sacco, Il contratto, in Trattato di diritto civile, a cura di Vassalli, Torino, 1975, 94.

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