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sabato 14 aprile 2012

Tutela della salute e responsabilità sanitaria: il punto della Cassazione nel 2011 in tema di nesso causale tra la condotta illecita del medico e il danno



Nel 2011 sono state depositate diverse decisioni di rilievo in materia di responsabilità medica.

Tra queste, le più significative hanno riguardato l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta illecita ed il danno.

Su questo argomento spicca, per l’importanza dei princìpi affermati e la diffusa motivazione, la decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21 luglio 2011 (rv. 618882), la quale peraltro ha stabilito princìpi, in materia di nesso causale, suscettibili di applicazione generale e non limitata alla sola materia della responsabilità del sanitario.

Con questa sentenza è stato risolto un importante problema in tema di nesso di causalità, e cioè se il concorso di cause umane e cause naturali alla produzione dell’evento possa giustificare una riduzione percentuale del grado di colpa del danneggiante e, di conseguenza, della misura del risarcimento.

Per la comprensione di tale problema occorre ricordare come, per lunghi anni, la Corte di cassazione aveva costantemente affermato che se alla produzione dell’evento di danno concorrono la condotta dell’uomo e cause naturali, il responsabile non può invocare alcuna riduzione della propria responsabilità, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. [Così, ex plurimis, Cass. civ., sez. 2, 28 marzo 2007, n. 7577 (rv. 596272); Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5539 (rv. 561998)].

Poi, nel 2009, la Corte di legittimità aveva sorprendentemente mutato avviso proprio nel decidere un caso di colpa medica, con la sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 975 del 16 gennaio 2009 (rv. 606131).

Il caso oggetto di quest’ultima decisione riguardava la vicenda di un paziente, già infartuato, al quale i chirurghi nel corso di un intervento procuravano un’emorragia in conseguenza della lesione accidentale di un vaso sanguigno. Dopo l’emorragia il paziente pativa un secondo infarto che lo conduceva a morte: sicché era sorto il problema di stabilire se la morte fosse stata causata dall’emorragia, ovvero se il secondo infarto fosse sopravvenuto per un fattore autonomo, quale naturale sviluppo dello stato di salute in cui il paziente si trovava al momento del ricovero.

La corte nel decidere questa vicenda, dopo avere ribadito il tradizionale principio secondo cui il nesso di causalità tra la condotta e l’illecito sussiste, ai sensi dell’art. 40 cod. pen., a condizione che senza la prima il secondo non si sarebbe mai potuto verificare, ha sentito il bisogno di aggiungere, a mo’ di obiter dictum, che in ogni caso il giudice di merito, cui sarebbe stata rinviata la causa, nella liquidazione del danno avrebbe dovuto tenere conto delle gravi condizioni di salute del paziente, preesistenti all’intervento.

In particolare, ove avesse accertato che la morte del paziente fu determinata da un concorso di causa (la condotta imperita dei sanitari e le pregresse condizioni di salute), secondo la S.C. il giudice di merito avrebbe dovuto “procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all'uno o all'altra, eventualmente con criterio equitativo”. Anche nel caso di incertezza sulle cause dell’illecito dovrebbe infatti trovare applicazione l’art. 1226 cod. civ., per evitare di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso.

Questa conclusione venne corroborata poi da due rilievi: sia l’art. 2055 cod. civ., in tema di regresso fra condebitori solidali; sia l’art. 1227 cod. civ., in tema di concorso colposo della vittima nella produzione del danno, prevedono che la misura del regresso e - rispettivamente - la riduzione del risarcimento siano determinate in funzione delle conseguenze derivate dalla condotta del condebitore o della vittima, in tal modo ammettendo che il nesso di causalità possa essere concettualmente frazionato.

L’effetto di questa sentenza, di fatto, fu quello di circoscrivere l’area della responsabilità medica. Infatti, quando il paziente avesse invocato la responsabilità del sanitario che l’aveva avuto in cura, ma fosse emerso che comunque alla produzione del danno alla persona del paziente aveva concorso non solo l’opera del medico, ma anche le pregresse condizioni di salute del paziente stesso, si consentiva al giudice di ridurre in via equitativa - ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. - l’ammontare del risarcimento.

La soluzione adottata dalla sentenza 975 del 2009 è stata oggi abbandonata dalla più recente decisione 15991 del 2011, cit., in termini cosi recisi e risoluti da indurre a ritenere che ci si trovi dinanzi non ad un contrasto di giurisprudenza, ma ad un autentico e definitivo revirement della Cassazione.

La sentenza più recente ha infatti rilevato come la soluzione adottata nel 2009 (e cioè la graduabilità della responsabilità del medico in funzione delle pregresse condizioni del paziente) confondeva due diversi nessi di causalità: quello tra la condotta illecita e la concreta lesione dell’interesse (c.d. causalità materiale, disciplinata dall’art. 40 cod. pen.), e quello tra quest’ultima ed i danni che ne sono derivati (c.d. causalità giuridica, disciplinata dall’art. 1223 cod. civ.).

Secondo questa impostazione, nel caso di responsabilità per danno biologico derivante da colpa del medico, occorre in primo luogo stabilire se dall’azione od omissione del medico sia derivata una lesione della salute; quindi - in caso affermativo - accertare quali conseguenze dannose (in termini di sofferenza, compromissione della validità psicofisica, pregiudizi patrimoniali) ne siano derivate.

L’obbligo risarcitorio sorge dunque allorché siano positivamente accertati tre fatti giuridici (condotta, lesione e danno), legati da due nessi causali (causalità materiale tra la condotta e la lesione, causalità giuridica tra quest’ultima ed il danno).

La circostanza che un paziente, prima dell’intervento rivelatosi infausto, fosse portatore di patologie pregresse non può mai comportare - ha stabilito Cass. 15991 del 2011 - il “frazionamento” del nesso di causalità tra condotta e danno. Tale nesso o c’è o manca, senza che sia possibile alcuna graduazione percentuale. 

Pertanto, quand’anche il medico abbia con la propria azione od omissione fornito un contributo causale solo dell’1% alla produzione del danno, il quale è dovuto per il resto al concorso di cause naturali, egli dovrà comunque risponderne per intero.

Le pregresse condizioni di salute del paziente, e più in generale il concorso di concause naturali alla produzione del danno, vengono invece in rilievo nel momento della liquidazione del danno: più esattamente, nella selezione, tra tutte le conseguenze provocate dall’errore medico, delle sole che siano giuridicamente risarcibili, quali conseguenze immediate e dirette dell’illecito ai sensi dell’art. 1223 cod. civ..

Sotto questo profilo, la sentenza 15991 del 2011 si spinge a suggerire una autentica tassonomia dei casi più frequentemente ricorrenti:

(a) se il paziente era già malato od invalido, e l’atto medico aggrava le sue condizioni di salute, il danno va liquidato considerando quale sarebbe stata la condizione del paziente se non ci fosse stato l’errore medico;

(b) se il paziente era già “affetto da patologie prive di effetti invalidanti”, e l’atto medico gli causa un danno alla salute, il danno va liquidato senza tenere conto dello stato pregresso del paziente;

(c) se il paziente era affetto da una patologia non letale, e l’errore del medico ne causa la morte, lo stato di salute pregresso:
(c’) è irrilevante ai fini della liquidazione del danno patito iure proprio dai familiari della vittima;
(c’’) può giustificare la riduzione del risarcimento dell’eventuale danno alla salute patito dalla vittima primaria e trasmesso iure successionis agli eredi;

(d) se il paziente era già affetto da una malattia letale, ma l’errore del medico ne accelera la morte, le sue pregresse condizioni di salute possono giustificare una riduzione del risarcimento spettante iure proprio ai familiari, in proporzione dello scarto temporale tra la durata della vita effettivamente vissuta e quella che la vittima, in assenza dell’errore medico, avrebbe verosimilmente potuto sperare.

Un cenno meritano, in materia di accertamento del nesso di causalità tra condotta del medico e danno del paziente, alcune decisioni che, approfondendo e precisando princìpi pur non nuovi, li hanno trasformati in “diritto vivente”.

Tali decisioni hanno riguardato in particolare i criteri di accertamento del nesso di causalità ed il riparto dell’onere della prova.

Sotto il primo profilo, si è ribadito [da Sez. 3, Sentenza n. 15386 del 13 luglio 2011 (rv. 618771)] che nell’ipotesi di erronea diagnosi prenatale, la quale abbia omesso di rilevare gravi malformazioni del feto e, di conseguenza, precluso alla gestante di interrompere la gravidanza, la prova del nesso di causalità tra omessa informazione prenatale e perduta possibilità di abortire, pur se incombente sulla parte attrice, non può che essere di natura presuntiva quanto al grave pericolo per la salute psichica della donna che costituisce la condizione richiesta dalla legge per l'interruzione di gravidanza.

Nello stesso ordine di idee si pone il decisum di Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12686 del 9 giugno 2011 (rv. 618137). Questa sentenza aveva ad oggetto la vicenda di un bambino nato con un grave deficit neurologico, dovuto ad ipossia cerebrale. Mentre i genitori sostenevano che la causa dell’ipossia era dovuta al personale sanitario, negligente ed intempestivo nell’esecuzione del parto cesareo, i convenuti asserivano che la causa dell’ipossia era naturale e si era già prodotta durante la gestazione.

Si trattava dunque di stabilire se vi fosse o no prova dell’origine ante partum dell’ipossia, e la Corte ha sì ammesso che la prova della sussistenza di un valido nesso causale tra l'omissione dei sanitari ed il danno va fornita dal danneggiato, ma ha soggiunto che tale prova deve ritenersi sussistente quando ricorrano congiuntamente due condizioni:

(a) non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche;

(b) appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento o da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato.

In buona sostanza, con questa decisione si è ribadito che quando l’evento di danno sia astrattamente imputabile a più cause, la responsabilità del convenuto può essere esclusa solo quando sia certo che la causa effettiva del danno non sia a lui ascrivibile.

Infine, sempre in tema di nesso causale merita di essere ricordata la decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 3847 del 17 febbraio 2011 (rv. 616273), la quale ha stabilito che la mancata documentazione dell’atto medico può bastare di per sé a ritenere sussistente il nesso di causalità tra l’omissione del medico ed il danno patito dal paziente, quando quella omissione era astrattamente idonea a provocare l’evento, ed il reale andamento dei fatto sia divenuto inconoscibile proprio a causa della trascuratezza della cartella clinica. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistere un nesso di causalità tra la condotta dei medici, i quali avevano ritardato l'esecuzione di un parto cesareo, e la grave asfissia del neonato, reputando irrilevante la pur elevata probabilità statistica che l'asfissia cerebrale potesse avere avuto origine fisiologica in base all'assunto per cui, per escludere con certezza il nesso di causalità tra l'evento e la condotta del sanitario, si sarebbe dovuto disporre di un tracciato cardiotocografico, che i medici stessi avevano però omesso di eseguire nell'imminenza del parto.




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