A norma dell'art. 1755 c.c., l'affare che costituisce il diritto alla provvigione del mediatore è quello che dal mediatore è stato proposto alle parti sicché, nel caso che queste concludano successivamente un affare diverso da quello originariamente proposto dal mediatore, viene meno ogni nesso di causalità tra l'attività da quest'ultimo espletata e l'affare ed il conseguente obbligo delle parti di pagare la provvigione[1].
L’affare deve consistere in un atto di volontà giuridicamente efficace a vincolare le parti, in altre parole un accordo tra (almeno) due soggetti, idoneo ad abilitare ciascuna di esse ad agire per l’esecuzione del contratto o, in difetto, per il risarcimento del danno come ad esempio la conclusione di un contratto un preliminare[2].
Più specificamente, il termine «affare» è riferibile ad ogni operazione generatrice di obbligazioni e, cioè, ad ogni rapporto giuridico che rivesta carattere vincolante e che riceva tutela dall’ordinamento giuridico, il quale ne assicuri l’adempimento[3].
Insomma, anche se normalmente vi è coincidenza tra affare e contratto, tale coincidenza non deve ritenersi essenziale: l’affare va cioè inteso non solo come conclusione di un unico contratto (anche se normalmente è così che avviene) ma come qualsiasi operazione di natura economica che si risolva in un’utilità patrimoniale che dia luogo a conseguenze giuridiche: «la locuzione "affare", impiegata dalla norma, non serve a definire soltanto le operazioni di trasferimento di beni, ma include ogni operazione di contenuto economico che si risolve in una utilità di natura patrimoniale[4]».
Tale conclusione ha consentito di ritenere giuridicamente possibile l’opera di un mediatore anche nella stipulazione di una pluralità di contratti tra loro collegati e diretti a realizzare un unico interesse e programma economico, restando in questo caso la mediazione unica, avendo ad oggetto pur sempre un unico «affare» e rimanendo obbligati al pagamento della provvigione i soggetti che hanno partecipato alla conclusione di detto affare[5].
Tuttavia, poiché il diritto alla provvigione da parte del mediatore consegue non alla conclusione del negozio giuridico, ma dell’affare come sopra inteso, la condizione perché sorga il diritto alla provvigione è l’identità dell’affare proposto con quello concluso, sicché, quando si debbono individuare i soggetti tenuti al pagamento della provvigione è necessario sempre risalire allo strumento giuridico utilizzato per il compimento dell'affare e guardare ai soggetti dell'atto giuridicamente rilevante nel quale è contenuta l'operazione economica frutto della mediazione.
Tale distinzione tra parti in senso economico e parti in senso giuridico dell'affare ha, naturalmente, il solo scopo di consentire l’identificazione dei soggetti tenuti al pagamento della provvigione.
Da quanto detto si ricava che non è sempre facile stabilire se sussista in concreto una identità tra affare proposto e affare concluso.
La stessa giurisprudenza, in ordine al criterio da adottare per formulare il giudizio di identità, pare oscillante, richiedendo a volte che la fattispecie oggetto del contratto intermediato venga attuata negli stessi termini previsti e voluti dalle parti al momento del conferimento dell’incarico, altre volte sostenendo che, più che alla struttura giuridico–formale dell’affare, si debba guardare all’attitudine di questo a soddisfare l’interesse economico avuto di mira dalle parti[6].
Questa considerazione appare evidente soprattutto in relazione alle pronunce giurisprudenziali che si sono occupate di trasferimenti immobiliari realizzati con l’intervento di un mediatore attraverso il ricorso alla figura della locazione finanziaria (cd. leasing)[7].
Come è noto, questa figura contrattuale prevede la partecipazione di tre soggetti: il concedente finanziatore (che esercita l’attività di leasing), il fornitore, e l’utilizzatore finale del bene. Quest’ultimo (di solito un imprenditore), interessato all’utilità di un determinato bene, ma al contempo intenzionato a non sostenere gli oneri economici e fiscali di un acquisto, si rivolge al concedente finanziatore conferendogli l’incarico di finanziare e procedere all’acquisto da terzi di beni di qualsiasi specie, mobili o immobili, per concederli in uso ad un soggetto (utilizzatore) per un periodo di tempo prefissato e contro il pagamento di un canone periodico. Il concedente effettua quindi l’acquisto e, mantenendo la titolarità del diritto di proprietà sul bene acquistato, ne cede il godimento all’utilizzatore in cambio di un corrispettivo periodico prestabilito (c.d. locazione finanziaria). Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha la facoltà di scegliere tra il riscatto del bene mediante il pagamento di un prezzo finale, la proroga della locazione e la restituzione del bene al concedente finanziatore.
Può pertanto accadere che, dopo che il mediatore abbia messo in relazione due parti interessate rispettivamente all’acquisto ed alla vendita di un immobile, l'immobile venga poi definitivamente acquistato da un terzo soggetto che lo concede in leasing al soggetto originariamente interessato all’acquisto, il quale ne risulta pertanto l'utilizzatore.
Ebbene, nei casi in cui le parti non concludano il contratto di vendita per il quale il mediatore le ha messe in relazione, ma l’una alieni il bene al terzo e l’altra stipuli con l’acquirente convenzione di leasing, la Suprema Corte, pur qualificando tale contratto come figura di collegamento negoziale, ha ritenuto l’affare soggettivamente ed oggettivamente diverso, a nulla rilevando che la convenzione si atteggi come operazione economica complessiva e svolga funzione traslativa subordinatamente all’esercizio del riscatto: diversi sono i tipi contrattuali utilizzati, diverse sono le parti protagoniste del leasing e della compravendita; per cui l’affare concluso risulta soggettivamente e oggettivamente diverso rispetto a quello oggetto della mediazione, non andata a buon fine[8].
Altre volte, invece, richiamandosi al principio sopra esposto secondo cui la maturazione del diritto alla provvigione non deriva tanto dalla conclusione del contratto, ma "dall'affare" (termine che comprende qualsiasi operazione di contenuto economico che si risolva, a prescindere dalla forma negoziale adoperata, in un'utilità di carattere patrimoniale in relazione all'obiettivo prefisso dalle parti) la Cassazione ha affermato che: «la conclusione di una compravendita tramite locazione finanziaria può considerarsi, in relazione agli obiettivi perseguiti dalle parti, affare identico alla compravendita stessa ai fini della maturazione del diritto alla provvigione in capo al mediatore»[9].
Giova rilevare, peraltro, che da tempo la giurisprudenza ha assimilato alla vendita quantomeno la figura del «leasing traslativo» (che ricorre allorquando il canone sia stato pattuito come corresponsione anticipata di parte del prezzo di acquisto previsto alla scadenza del contratto e la concessione in godimento assume funzione strumentale a detto acquisto, in modo che l’insieme dei canoni remunera interamente il capitale impiegato e, alla scadenza del contratto, il prevedibile valore del bene sopravanza in modo non indifferente il prezzo di opzione) al fine di differenziarne la disciplina della risoluzione rispetto al «leasing di godimento» (pattuito, invece, con funzione di finanziamento rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e a fronte di canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi).
E’ con riferimento alla prima figura che la Cassazione ha affermato che, in realtà «le parti intendono realizzare un preminente e coessenziale effetto traslativo … al quale risulta applicabile in via analogica, stante la omogeneità degli interessi tutelati, l'art. 1526 c.c…» mentre, al leasing di godimento, si dovrà invece applicare la disciplina dei contratti ad esecuzione continuata o periodica dettata dall'art. 1458 c.c. (con particolare riferimento alla non ripetibilità dei canoni già versati)[10].
Ora, tenuto conto che il diritto alla provvigione matura per effetto della conclusione (non del contratto ma) dell’affare, e che quest’ultimo comprende qualsiasi operazione di contenuto economico, appare forse più corretto ritenere che anche la conclusione di una compravendita tramite locazione finanziaria possa considerarsi, a seconda degli obiettivi perseguiti dalle parti, affare identico alla compravendita stessa alla cui conclusione l’acquirente perviene tramite il finanziamento di un terzo[11].
Nessuna incertezza sembra sussistere invece nell’ipotesi del cd. sale and lease back.
Si è così negato il diritto alla provvigione, ritenendo non sussistente l’identità dell’affare concluso rispetto a quello proposto, anche se i soggetti coinvolti sostanzialmente non erano mutati, in un caso in cui il mediatore aveva appunto proposto alle parti un contratto di leasing back per la cessione di un immobile; le parti non l’avevano accettata e, dopo qualche tempo, avevano concluso un semplice contratto di vendita[12].
In effetti, il contratto di sale and lease back (in forza del quale un'impresa vende un bene strumentale ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore), configura un contratto d'impresa socialmente tipico[13], in quanto frequentemente applicato nella pratica degli affari (poiché consente agli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante l’alienazione di un bene strumentale - di norma funzionale a un determinato assetto produttivo e, pertanto, non agevolmente collocabile sul mercato - conservandone l’uso con la facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto).
Esattamente il contrario avviene invece nel leasing finanziario, là dove il finanziamento è solo indiretto e, soprattutto, l’imprenditore ha interesse ad acquisire il bene produttivo e non già il denaro: si deve pertanto riconoscere che tale contratto si differenzia dalla compravendita, trattandosi, in effetti, di affare certamente diverso.
[1] Cass. 6.9.2001, n. 1467; Cass. 6.5.1996, n. 4196; Cass. 7.6.1990 n. 5457; Cass. 27.5.1987 n. 4734.
[2] Per affare compiuto, ai fini del diritto alla provvigione derivante da un contratto di mediazione, deve intendersi un atto da cui è scaturito un vincolo giuridico tra le parti messe in relazione per effetto dell'attività intermediatrice, che consenta loro di agire per l'esecuzione di esso, con la conseguenza che anche la conclusione di un contratto preliminare può essere ritenuto un affare compiuto (orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte: v. Cass. 26.9.2005 n. 18779; Cass. 22.3.2001 n. 4111; Cass. 11.5.2001 n. 6599; Cass. 7.6.1990 n. 5457 cit.).
[3] Cass. 12.4.2006, n. 8555, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. 16.6.1992, n. 7400, in Foro it. Rep., 1992; Cass., 16.12.1987, n. 9348, in Arch. civ., 1988, 285; Cass. 25.7.1983, n. 5117, in Foro it. Rep., 1983; Cass. 22.1.1977, n. 330, in Foro it. Rep., 1977.
[5] Cass. 15.5.2000, n. 6220, in Mass. giur. it., 2000; Cass. 27.7.1995, n. 8187, cit.; Cass. 22.1.1977 n. 330, cit.
[6] Cass. 25.7.1983, n. 5117, in Mass. giur. it., 1983; Nell’ipotesi in cui il mediatore abbia procurato l’acquisto di un immobile appartenente ad una società ma gli acquirenti, anziché l’immobile, hanno comperato le azioni della società proprietaria, Cass. 25.10.1991, n. 11384, ritiene concluso ugualmente l’affare con diritto del mediatore alla provvigione, argomentando che l’acquisto dell’immobile è «indirettamente» avvenuto.
[7] Cass. 23.10.1976, n. 3820, in Foro it. Rep., 1976; App. Palermo 18.1.1964, in Riv. giur. ed., 1965, I, 375.
[8] Cass. 6.9.2001, n. 11467, cit.
[10] Cass., Sez. un. 7.1.1993, n. 65, in Foro It., 1994, I, 177 nota di VACCHIANO; Cass. 7.2.2001, n. 1715; Cass. 14.11.2006, n. 24214; Cass. 2.3.2007, n. 4969, in Foro It., 2007, I, 2433; Cass.13.5.2008, n. 11893.
[11] BORDOLLI, Mediazione immobiliare e leasing, in Immobili & Proprietà, 2008, 9, 552.
[13] E, come tale, in linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità di verificare, caso per caso, la presenza di elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita è stata posta in essere in funzione di garanzia ed è volta, pertanto, ad aggirare il divieto del patto commissorio: cfr. ad esempio Cass. 14.3.2006, n. 5438.
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